Rivoluzionare ritmi che sono radicati da cinquant’anni in risposta a un cambiamento epocale che, di fatto, è già avvenuto.Sembra essere questa la ragione dietro le scelte dei marchi che hanno deciso di ripensare i calendari unendo le sfilate uomo e donna e di stringere, fino ad annullarli, i tempi tra le sfilate e la consegna delle collezioni in negozio.
Le reazioni di chi in quell’intervallo lavora - i buyer, ma anche gli showroom - di fronte a quello che potrebbe essere l’incipit di una trasformazione radicale come un bluff ben organizzato dalle divisioni marketing dei colossi della moda sono diverse tra loro. C’è chi è totalmente d’accordo come Andrea Panconesi, titolare di LuisaViaRoma: «Il mercato vuole acquistare ciò che vede su Internet e sui social:le sfilate devono precedere il lancio in negozio. Ci vuole un unico evento uomo-donna per brand, due volte l’anno», dice.
Panconesi ha scommesso subito sulla Rete, ottenendo risultati ben visibili - la storica insegna multimarca di Firenze deve il 90% dei propri ricavi , in totale circa 100 milioni di euro, alle vendite della propria piattaforma online - e già nel 2010 lanciava il programma “Buy it First” che permetteva ai clienti di acquistare in anteprima assoluta, il giorno dopo le sfilate, alcuni capi di 10 marchi internazionali: «Volevamo andare incontro alle esigenze di una clientela, la nostra, che di fatto rappresenta una nicchia di appassionati di moda - spiega Panconesi - e ci siamo riusciti». Il ruolo del buyer, in questo scenario, non verrebbe sminuito: «Le aziende e i buyer devono collaborare e gli acquisti devono essere anticipati».
È sulla stessa lunghezza d’onda Sabrina Bonini, titolare insieme al marito dello showroom Massimo Bonini , con sede a Milano e New York, che distribuisce tra gli altri gli accessori di Marco De Vincenzo, Karl Lagerfeld: «L’80% degli acquisti avviene già prima della sfilata - dice - quindi la naturale evoluzione è che i defilé vengano fatti per i consumatori». Lo showroom continuerebbe a fare da ponte tra aziende e compratori: «Il rapporto tra questi due attori sarà decisivo: le aziende dovranno “fidarsi” dei buyer e tarare le produzioni sulle loro richieste».
Proprio questa eccessiva fiducia non convince Beppe Angiolini, titolare delle boutique Sugar di Arezzo: «Sarebbe bello, ma temo che in un momento storico come questo sia difficile che le aziende o i negozi si assumano un rischio così alto», spiega. Un cambiamento, però, va messo in atto: «Dobbiamo avviare una trasformazione per stare al passo con i tempi - chiosa Angiolini - ma non deve essere traumatica per la filiera».
Anche Riccardo Grassi, titolare dell’omonimo showroom che vende N.21 e Msgm tra gli altri, non è convinto: «Penso che il ready to buy sia possibile solo per le aziende che si appoggiano a una rete di vendita diretta - dice - e che contano su una ampia gamma di prodotti. Come Burberry». Secondo Grassi i marchi più piccoli, invece, dovrebbero tenersi lontani dalle sovraesposizioni: «Sui social, lo dico sempre ai miei clienti, appoggiate i prodotti di stagione. Se no si fa confusione».
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